18 marzo 1968: la data è quella del celebre discorso di Robert Kennedy all’Università del Kansas sull’inadeguatezza del PIL come indicatore di benessere delle nazioni economicamente sviluppate. «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL non tiene conto del benessere delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri dipendenti pubblici. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Kennedy è ucciso tre mesi dopo, a Los Angeles, durante la campagna elettorale che forse lo avrebbe portato a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. Le sue parole non avranno seguito, confinate nel solito museo delle buone intenzioni, un barlume di luce che nessuno all’epoca riuscì o volle cogliere. Oggi siamo di nuovo a un bivio, segnato questa volta da un virus che ci interroga sui nostri quotidiani automatismi e consolidate inerzie. Possiamo ancora scegliere, considerare questo “tempo sospeso” come dono prezioso per riconsiderare i parametri dello sviluppo, oppure derubricarlo a semplice incidente di percorso, una battuta d’arresto che non impedirà la “ripartenza”, nuovo avvio verso il «mero perseguimento del benessere economico».

Se quello che oggi abbiamo è frutto in parte di ciò che ieri abbiamo reso normale, una nuova responsabilità collettiva potrebbe tuttavia ridisegnare la nostra geografia, con una più sicura e incisiva difesa dei beni comuni come la salute, la scuola, la giustizia sociale, il benessere di tutti, l’attenzione alla natura e alle altre specie. Per quanto utopica, quell’idea di comunità più umana e solidale si dà oggi infatti come reale e possibile. Dimostrata l’inconsistenza del darwinismo sociale, cioè l’evoluzione ridotta a legge del più forte, a fine Ottocento il rivoluzionario anarchico russo, geografo ed esploratore, Pëtr Kropotkin, affermava nel suo bel volume “Il mutuo appoggio”, che «tutte le transazioni evolutive sono capolavori di cooperazione, e che l’aiuto reciproco è una delle chiavi dell’evoluzione».

Il coronavirus parla di noi, di quello che siamo e di quello che potremmo essere, delle nostre quotidiane realtà oggi travolte da aspetti che, forse, nessuno immaginava o voleva vedere. È certamente una svolta che dovrebbe indurre la nostra consumata civiltà a ripensare l’ottimistico rapporto con le sue ambiziose quanto fragili mete tecnico-scientifiche, il frenetico progresso segnato da profonde ineguaglianze, riconoscendo finitezza e incompiutezza delle alternative concesse alla specie umana. Un’occasione, cioè, per ricostruire il mondo su nuove basi, sfruttando con maggiore intelligenza quelle conoscenze e connessioni che davvero potrebbero permetterci – come auspicava appunto Robert Kennedy – di vivere una «vita che sia veramente degna di essere vissuta».